1997
PAUL VALÉRY
Con Pamela Villoresi e Philippe Leroy
ELOGIO DELLA LENTEZZA. Paul Valéry e la forma della poesia.
«La calma nell’azione. Come una cascata diventa nella caduta più lenta e sospesa, così il grande uomo d’azione suole agire con più calma di quanto il suo impetuoso desiderio facesse prevedere prima dell’azione.»
(Fredrich Nietzsche, Umano, troppo umano, )
Fedele ammiratore della snella levigatezza della danza, Valéry teme la fretta e la concitazione della corsa, ha timore della frenesia concatenata alla perdita di sensibilità del moto senza tregua.
Più che dal vuoto, appare atterrito dal movimento infinito e senza senso che incontra ad ogni pie’ sospinto: il rifiuto di “ogni prodigioso incremento di fatti e di ipotesi” compare in quasi tutte le sue opere. Basteranno alcuni specimina a dimostrarlo:
« – Vuole dire che più si trova, più si cerca; e che più si cerca, più si trova?
- Esatto. Certe volte mi sembra che fra la ricerca e la scoperta si sia formata una relazione paragonabile a quella che i stabilisce fra la droga e l’intossicato.
– Molto curioso. E allora tutta la trasformazione moderna del mondo…
– Ne è il risultato; e ne rappresenta, del resto, un altro aspetto … Velocità. Abusi sensoriali. Luci eccessive. Bisogno dell’incoerenza. Mobilità. Gusto del sempre più grande. Automatismo del sempre più “avanzato”, che si manifesta in politica, in arte, e … nei costumi».
«Una poesia deve essere una festa dell'intelletto» dichiara Valéry: per Valéry l'ispirazione immediata, romanticisticamente intesa, non basta all'artista che voglia condurre a termine la propria opera sul piano formale. Ciò che conta, condizione indispensabile ma non sufficiente, è il lavoro attento e paziente compiuto sul linguaggio, il freno critico all'esuberanza della passione, la coscienza per il poeta di operare un intervento continuo e importante sul linguaggio. La parola poetica viene a essere il veicolo unificatore dell'esperienza umana, non arido semantema o glossa scientista, ma lacrima e riso che, depurato dall'intelletto, affonda le sue radici nel fondo dell'esistenza. Il poeta, come per i simbolisti, è vate cui compito è «incantare» colui che legge, guidarlo alla scoperta di un «ordine universale» e di una «saggezza divina». Il pubblico è ristretto a una élite: nasce un linguaggio ermetico, che si svincola dai contenuti immediati per diventare sofisticato criptogramma dischiuso a pochi fedeli: «un linguaggio della poesia», come dice Valéry riprendendo il programma di Mallarmé che aveva posto il compito di «sottrarre il linguaggio all'uso che ne fa la tribù».