Medea ci riporta – a partire dai tragici greci – alle donne di oggi. Sono infatti le donne a mettere in discussione la vecchia cultura facendosi portatrici di un nuovo pensiero. Ed è proprio attraverso Medea (figura totalmente inedita e significativa) che Euripide pone all'interno delle rappresentazioni tragiche un elemento di assoluta modernità.
Medea, infatti, è la prima donna a mettere in discussione i rapporti tra uomo e donna, evidenziando una situazione di forza, contestando l'esistente, aprendo un contenzioso e lasciando intravedere nuove possibilità.
Medea è per questo uno dei più estremi e affascinanti personaggi della tragedia classica e moderna in quanto, prima fra tutte, non agisce spinta da un impulso erotico o sentimentale ma per rispondere ad una ingiustizia :”ecco Medea ….ecco la sventura di una donna“ dice di se al termine di un lunghissimo e straziante monologo.
Le modalità del suo atto trascendono ogni consuetudine.
In Medea l'azione tragica coincide con la sua stessa rovina poiché, mentre punisce il padre dei suoi figli, colpisce con uguale violenza se stessa: pur riconoscendo l'impatto del suo agire, lo persegue con determinazione e lucida consapevolezza.
Il conflitto per la prima volta in una tragedia non è fuori, ma dentro il personaggio, come risulta dal ruolo decisivo dei monologhi nello sviluppo della struttura drammaturgica.
Note di regia
C’è una definizione precisa della tragedia in un testo di Jean Anouilh, attraverso una immagine molto forte, che trovo assolutamente pertinente: il coro infatti dice “La molla è caricata. Non avrà che da scaricarsi da sola .. nella tragedia tutto è tranquillo si dà appena una spinta per metterla in moto, un nonnulla. Tutto qui. Dopo non c’è che da lasciarla fare…”
Ecco, Medea è la molla caricata: la sua diversità, il suo essere esule in terra straniera, non più amata dall’uomo per il quale ha lasciato la casa e gli affetti, sono ancora oggi come allora motivi sufficienti per provocare un corto circuito emotivo di dimensioni devastanti tali da provocare mali terribili all’interno della famiglia e delle istituzioni.
Medea la barbara, Medea la sapiente - e per questo invisa ai potenti della sua nuova città – è la scintilla che sovverte e scuote l’istituzione familiare, la gerarchia: attraverso un atto emotivo e non razionale mette in discussione la pace sociale invocata da Giasone e Creonte.
Raccontare ancora una volta Medea è narrare da un lato quanto le passioni possano essere devastanti se non controllate, ma dall’altro come gli uomini attraverso sofisticati ragionamenti giustifichino scelte di comodo per il raggiungimento di una posizione sociale più alta all’interno di una comunità.
Medea è anche una storia tremenda che le cronache recenti continuano a raccontarci suscitando orrore per un atto così orribile: ancora una volta la lezione dei classici ci fa riflettere sul nostro essere uomini di questo tempo, con l’immutata fragilità di sempre, e ci invita a partecipare al percorso doloroso della protagonista, percorrendo con lei tutta la gamma delle passioni e l’orrore per un gesto così tremendo e definitivo
La scena di Michele Ciacciofera evoca questo mondo di passaggio, questa transizione, delineando un cratere che è anche una landa desolata, un vuoto che viene abitato da Medea e che solo Giasone riuscirà a penetrare. Gli altri personaggi si muovono intorno a questo centro, ne raccolgono gli umori, ci raccontano le paure di Creonte e i sentimenti della polis verso la straniera, l’esule, colei che con la sua richiesta di pari dignità all’interno della struttura sociale di Corinto ne rovescia la visione destabilizzando i rapporti consolidati.
Le musiche di Luciano Vavolo raccolgono suggestioni antiche ricollocandole con sensibilità contemporanea all’interno di un allestimento che privilegia fortemente il compito degli attori destinati a restituirci un distillato di parole ed emozioni che avvolgono lo spettatore in una partitura musicale serrata .
(Maurizio Panici)
ESTRATTI STAMPA
La Villoresi al Teatro Greco di Tindari
L’attrice torna al personaggio che recitò già sette anni fa. Sapiente la regia di Maurizio Panici che si ritaglia anche il ruolo di Egeo sul palcoscenico.
(…) Un successo che il Teatro dei Due Mari ri-propone nel decennale della sua nascita, dopo averla presentata sette anni fa a Taormina la stessa Pamela Villoresi nei panni della protagonista, in grado di incarnarsi in una belva feroce, a metà tra una Scilla e una leonessa.
E per quanto mostri gli artigli da lupa, la sua, è una Medea molto glamour, per via dei suoi capelli corti, per quel vestito rosso da sera (…) che incede ondeggiando a piedi nudi sulla scena di Michele Ciacciofera (cui si devono pure i disegni dei costumi realizzati da Lucia Mariani), simile a due mini-cavee terrose, una di fronte all’altra, con un tappeto ovoidale nero al centro delle due strutture. Qualcosa di somigliante a una prigione, quella di Corinto, in cui s’è cacciata questa terribile donna, esule e maga, che dopo aver aiutato il suo Giasone (David Sebasti) a conquistare il vello d’oro e avergli dato due foglietti, è stata da costui abbandonata, le è stata preferita la figlia del re Creonte, Creusa.
(…) Si fa apprezzare la sapiente regia di Panici, pure nel ruolo di Egeo, re d’Atene, con abito bianco(…) gli interventi cristallini della nutrice Silvia Budri da Maren e del messaggero Andrea Bacci, un po’ meno incisivi quelli della prima corifea Elena Sbardella e la presenza bizantina del Creonte di Renato Campese.
Applausi calorosi e repliche sino al 5 giugno, a giorni alterni con l’Orestea.
Giornale di Sicilia, 25 maggio 2010 - Gigi Giacobbe
La tragedia senza tempo di Medea donna tradita
Un personaggio d'inquietante attualità ben modulato da Pamela Villoresi
La Medea di Euripide è una delle tragedie greche più amate e più frequentemente rappresentate, perché è uno dei drammi più teatrali, più attuali, più inquietanti della letteratura universale. E questo perché è un'opera ricchissima di problematiche sociali, etiche e psicologiche, dove gli scontri frontali fra la donna e il suo sposo, ovvero fra la maga della Colchide e il capo degli Argonauti Giasone, hanno una inimmaginabile ambivalenza, dal momento che le ragioni dell'una e quelle dell'altro fanno pendere la bilancia della giustizia ora da una parte ora dall'altra.
I due erano giunti a Corinto profughi dalla Tessaglia, coi loro due bambini. Ma qui Giasone, dimenticando i doveri di marito e di padre, aveva deciso di convolare a nuove nozze con Glauce, figlia di Creonte, re della città greca. È questa la scintilla che scatena prima gli sfoghi, poi le ire, poi la rabbia violenta e vendicatrice della straniera, che accusa, inveisce, minaccia e maledice, aprendo l'animo a una puntuale disamina della condizione della donna; della donna nella molteplicità dei suoi ruoli: essere umano soggetto ai pregiudizi, moglie subordinata al marito, madre condannata alle sofferenze del parto, ospite rifiutata di una terra straniera che le è ostile, compagna tradita e offesa da chi avrebbe dovuto amarla e proteggerla.
La smisurata grandezza di questo universale capolavoro e il suo impatto continuo e coinvolgente nell'animo degli spettatori poggiano proprio qui: nella inusuale attualità delle motivazioni di quel conflitto in una civiltà, come quella odierna, in cui il relativismo e la globalizzazione mettono in discussione tutto, ma trascinano anche le madri più fragili, insicure e carenti di equilibrio interiore a uccidere con lucida follia, come Medea, i propri figli.
Tradotta in uno stile moderno ed efficace, la Medea messa in scena a Tindari dal "Teatro dei due mari", per la regia di Maurizio Panici, convince, appassiona e si fa spesso applaudire. Non mancano tagli, riduzioni e gratuite incongruenze (i costumi, per esempio), però tutti gli interpreti infondono al personaggio che ciascuno fa rivivere vigore, misura, dignità e dimensione drammatica, a seconda delle situazioni e delle funzioni della vicenda.
Pamela Villoresi domina la scena dall'inizio alla fine esternando con opportune modulazioni vocali – dall'urlo straziante di belva ferita al pianto, all'invocazione, alla preghiera, allo scongiuro, all'imprecazione, all'anatema – ora le sue convinzioni testarde, ora la sua irragionevolezza raziocinante, ora la gamma variegata dei suoi sogni infranti o delle sue emozioni esagitate. La schiera degli altri attori, in primo luogo David Sebasti, nelle vesti di Giasone, ha recitato con la chiarezza, l'ordine, il fervore, le differenziazioni psicologiche in virtù delle quali i significati di una tragedia come questa vengono interamente disvelati e ricomposti in vive espressioni di umanità.
Renato Campese (Creonte), Silvia Budri Da Maren (la Nutrice), Andrea Bacci (il Messaggero) ed Elena Sbardella (la Corifea) hanno raggiunto, senza artifici, senza perdere il senso reale del mito, ma con intelligente ponderatezza, quegli effetti che il pubblico solitamente si aspetta da questo genere di spettacoli.
Gazzetta del Sud , 26 maggio 2010 - Salvatore Di Fazio
Pamela Villoresi
Medea palpitante
Le ferite interiori di una donna tradita, che reagisce al dolore con il più atroce degli assassini. Nel ruolo di Medea, Pamela Villoresi si distacca dall’interpretazione stereotipata del matricidio per trasmettere la dolorosa discesa agli inferi di un personaggio ricco di sfumature. Nello scenario di Tindari, per il Teatro dei Due Mari, la regia di Maurizio Panici, “Medea” di Euripide rivive in una messinscena palpitante. David Sebasti (Giasone) e un cast efficace affiancano l’ispirata Villoresi, mentre i costumi di Lucia Mariani (su disegno del pittore Michele Ciacciofera) danno un tocco di contemporaneità a un dramma che non smette di inquietare.
La Repubblica, 26 Maggio 2010 - Marco Oliveri
Con la Villoresi una Medea “imborghesita”
E’ una lunga storia quella degli spettacoli classici che d’estate, un tempo ormai lontano, affollavano la nostra penisola.. Costituendo un eccellente banco di prova per i teatranti lieti di misurarsi con l’impatto dei grandi tragici negli spazi ariosi di quel nostro Sud mediterraneo storicamente designato come Magna Grecia. Siracusa e Tindari, Pompei e Se gesta, tanto per citare i maggiori, videro dagli anni Cinquanta in poi i nomi più illustri della scena italiana, da Vittorio Gassman a Valeria Moriconi e, tra i registi, Franco Enriquez e Orazio Costa cimentarsi coi fantasmi di Achille e Cassandra, Giocasta ed Edipo.
Di quel miserabile assemblage oggi restano a disposizione del pubblico solo Siracusa grazie al benemerito Inda, e per fortuna, il prezioso anfiteatro di Tindari.
Dove da tempo la compagnia intitolata al Teatro dei Due Mari allestisce stimolanti riletture del mito antico. Che quest’ anno sono particolarmente significative poiché la compagnia, sempre diretta con mano sicura da Maurizio Panici, alterna alla cupa tragedia di Medea un’originale riscrittura dell’Orestea. Che il siciliano Michele Di Martino ambienta nella Trinacria degli anni di piombo dove ancora regnano le cosche, a dispetto della crescita democratica e culturale registrata all’epoca nell’isola bella.
Come accade a Siracusa, anche qui gli stessi attori sono a sere alterne gli interpreti di entrambi gli spettacoli. Con la differenza che a Tindari, oltre all’innegabile differenza che esiste a priori tra il dramma di Euripide e l’impasto gergale della nuova Orestea, Medea si tramuta in un dramma borghese vicino al modello di Anouilh. Mentre, per la saga degli Atridi, ci si rifà a un modulo didascalico di stampo brechtiano. Intuizione interessante che permette agli allestimenti, nell’ambito di un teatro povero per scelta oltre che per necessità, di mettere in luce lo straordinario talento di Pamela Villoresi. Una Medea che gioca con estremo rigore sul crinale di un irriducibile sarcasmo. Simile, a tratti, a un estatico coro a bocca chiusa per attore solista quando si scontra con la becera irruenza dell’arrogante Giasone del suo partner David Sebasti.
Il quale, come Don Pino vittima negli Atridi accanto al sensibile Oreste di Andrea Bacci, accentua in bella cadenza un lirismo di tipo crepuscolare che esalta per contrasto l’ambigua Clitennestra di Pamela prima consunta e poi divorata dal fascino nefasto del delitto.
Il Giornale, 15 giugno 2010, Enrico Groppali