Il titolo originale inglese “Palace of the end” fa riferimento ad un luogo preciso, un lussuoso e antico palazzo di Bagdad, conosciuto, prima dell’avvento di Saddam, come “Palazzo dei fiori”. Con la dittatura si trasformò nella sede dove venivano torturati gli oppositori e i nemici politici e il suo nome fu modificato in “Palazzo della fine”. Simbolo tragico e paradossale, è il teatro in cui vengono ambientate le storie dei tre personaggi tratte da altrettanti fatti di cronaca. LyndieEngland è la soldatessa americana condannata per le torture a sfondo sessuale nel carcere di Abu Ghraib, tristemente nota per la foto che la ritrae con il pollice alzato dietro al cumulo di prigionieri iracheni ammassati uno sull’altro. David Kelly è il microbiologo che ha contribuito a scrivere il dossier, poi rivelatosi falso, sul presunto possesso di armi non convenzionali da parte dell’Iraq.
E’ stato trovato morto con le vene del polso tagliate. Un suicidio avvenuto in circostanze sospette. La terza protagonista dello spettacolo è una donna conosciuta come “l’Angelo che vola sopra Bagdad”, dalla quale nasce il titolo per la versione italiana. Moglie del capo del Partito Comunista iracheno, arrestata e torturata perché colpevole di aver nascosto il marito, dopo aver visto seviziare ed uccidere i propri figli, muore paradossalmente sotto i bombardamenti di “liberazione” americani.
A teatro per riflettere
“Con questo spettacolo - spiega il regista Marco Carniti -ho scelto di portare in scena un testo di grande attualità. Perché la sfida, per un regista, è trattare personaggi veri, con riferimenti espliciti, nomi e cognomi di persone che la gente riconosce e che sono presenti nella memoria collettiva. “Un angelo sopra Bagdad” parla del paradosso, dei paradossi che sono dietro la nostra realtà e disegnano un teatro necessario, un teatro indispensabile. In Italia sono stati trasferiti alcuni prigionieri di Guantanamano. Gli Stati hanno l’obbligo di farsi carico di queste responsabilità, ma anche di fermarsi a riflettere sulla tortura, inaccettabilmente ancora impiegata anche dalle democrazie occidentali.
E’ indispensabile riflettere sugli effetti devastanti del potere, con la consapevolezza che all’interno di una dittatura e di un regime totalitario la distorsione della verità è costante ed è impossibile attribuire con esattezza i ruoli di vittime o carnefici. Si può solo schierarsi dalla parte dell’essere umano.”
Un teatro poetico
In un testo scritto senza una vera e propria struttura narrativa, le storie sono accostate in un unico spazio. “Sono per un teatro poetico - prosegue Carniti - cerco l’essenza poetica del testo che devo rappresentare. In questo caso l’autrice non inventa un’opera di fantasia: il testo è scritto sulla base di interviste e documenti. Ci troviamo di fronte al problema di dover rappresentare a teatro una fotografia reale del mondo contemporaneo.
Interpreto questa triade – un personaggio che ancora vive e che ha conosciuto il carcere, il microbiologo che morirà in scena, e la donna irachena uccisa , angelo della storia – come se si attraversasse un percorso dalla vita alla morte.
Ho voluto leggere i tre personaggi come tre condannati a morte dalla storia. Ho evitato la situazione realistica suggerita dall’autrice e li ho inseriti all’interno di una prigione ipotetica che rimanda alla vera Guantanamano.
Lo spazio scenico prescinde dalla realtà e nello stesso tempo la evoca nel modo più totale, assoluto. Il pubblico vive confessioni che si possono ascoltare nel parlatorio di una prigione e nello stesso tempo rappresenta un’assemblea di fronte alla quale è possibile crearsi una nuova opinione, in un mondo che sembra completamente narcotizzato”.
Marco Carniti