|
1995/1996
Piccolo Teatro di Milano
TAIBELE E IL SUO DEMONE
Autore Isaac Bashevis Singer e Eve Friedman
Traduzione di Valeria Moretti
Regia di Pamela Villoresi
Scene e costumi di Luciano Damiani
Coreografie di Micha Van Hoecke
Musiche di Alfredo Lacosegliaz e Moni Ovadia
Luci di Gerardo Modica
Interpreti Olek Mincer (Menasha), Moni Ovadia (Alchonon), Elena Sardi (Genendel), Pamela Villoresi (Taibele) e la Theater-Orchestra: Maurizio Dehò (violino) (Scaccino Laib), Alfredo Lacosegliaz (percussioni) (Scaccino Treitel), Gian Piero Marazza (fisarmonica) (Rabbino).
Coproduzione con CRT Artificio
Prima rappresentazione Milano, Teatro Studio (Piccolo Teatro su sito del piccolo teatro), 17 maggio 1995
Cercherò di spiegare il perché di questa mia scelta, in fondo io non sono ebrea, anzi forse in fondo sì, ma non secondo le regole, insomma non sono kosher! Ecco, io credo che per chi vive questo nostro lavoro… “benedetto” (lo dico senza ironia) con la gioia, l’inquietudine e la curiosità di un entronauta, affrontare un testo, un autore (la sua epoca, la sua cultura, il suo pensiero) significa addentrarsi in un giardino sconosciuto, godere dei profumi, dei colori, imparare, soffrire, immedesimarsi e dunque divenire molto più ricchi. Il mio approccio con la letteratura ebraica non è stato, diciamo, professionale, ma casuale (un amico, Antonio Monda, mi regalò un libro di Singer). E’ diventato prima un piacere poi una passione. Ho letto quasi tutti i suoi libri e non solo i suoi, mi sono beata di musiche, suoni, immagini, racconti, persone, sensazioni… Si impara sempre qualcosa, è vero, ma tutto quello che ho imparato in questi anni dalla frequentazione della cultura ebraica mi è molto difficile dirlo in maniera articolata sintetica. Potrei dire semplicemente che ho cominciato a imparare a vivere. Singer con le sue parabole, i suoi infiniti personaggi, attraverso le parole dei suoi santi rabbini, è riuscito a darmi delle lezioni di vita, delle occasioni di riflessione e a toccarmi come nessun profeta (vivo o morto, laico o religioso) prima, così tanto e così profondamente. Ho imparato ad essere una madre migliore, una moglie migliore, un’attrice migliore, una cittadina migliore, una persona migliore. Queste brevi tormentate storie poetiche contengono la semplicità e la saggezza di chi ci ha preceduto e ci ha voluto bene. Di quelli grazie ai quali esistiamo ed abbiamo ancora qualcosa di bello. Di gente che voleva sopravvivere e non sopraffare. Mio nonno, che non era ebreo, ma era un uomo buono e retto, un giorno, quand’ero piccola, mi portò a raccogliere noci da un vecchissimo albero davanti casa. Portò con sé un piccolissimo noce, un rametto che piantò poco distante da quello grande. Vedendo l’esilità dell’uno e la maestosità dell’altro, chiesi quanto ci sarebbe voluto affinché quel ramoscello divenisse un albero grande e desse tante noci. “ Venticinque - trent’anni”- mi rispose. Con l’ingenuità dell’infanzia replicai “ Ma te sarai morto tra trent’anni. Che lo pianti a fare?” “Brava grulla - rispose – sarò morto io, ma probabilmente anche questo nocione, e se ora io non ne pianto un altro, te dove le raccoglierai le noci quando sarai grande?” Poi la speculazione edilizia tranciò l’uno e l’altro e le noci le compro al supermercato, ma la lezione è rimasta. Il senso è che la vita non ci appartiene completamente (non appartiene al nostro ego) ma che prosegue oltre noi, si allarga al di là di noi e spetta a tutti. Dobbiamo essere capaci di vivere l’amore senza contropartita, “l’amore che allarga l’orizzonte dell’uomo e quindi del mondo”. Dobbiamo capire che noi siamo parte di un tutto ed esistiamo nella misura e con la densità di ciò che siamo in relazione agli altri. Etty Hillesum, per esempio, durante un congedo per malattia dal campo di smistamento di Westerbork, ebbe la possibilità di fuggire. Rifiutò. “A che servirebbe? Al mio posto andrebbe un altro. Questa non è una tragedia personale. E’ la tragedia di un popolo intero.” (e’ una tragedia di tutti gli umani). E lottò fino all’ultimo godendo della bellezza della vita e donando agli altri buone parole. E allora se, come dice Mario Luzi “niente si addice di più alla parola se non la temperatura del fuoco” e la cultura è una lotta concreta “contro l’inquinamento del pensiero e della coscienza” noi non possiamo far altro se non cercare di donare “per qualche attimo una vita più intensa” e invitare alla riflessione attraverso il teatro. Concedere una pausa dalla fucina del mondo moderno che trasforma gli umani in replicanti. “La qualità è la vera grande nemica della massificazione” diceva un grande teologo tedesco che finì, anche lui, per le sue idee, in un campo di concentramento dove morì impiccato. Si chiamava Dietrich Bonhoeffer. Diceva anche: “il fatto che il male si presenti nella figura della luce, del bene operare, della necessità storica di ciò che è giusto socialmente, ha un effetto semplicemente sconcertante, ma per chi vive della Bibbia è appunto la conferma dell’abissale malvagità del male […]per il bene, la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. In determinate circostanze gli uomini vengono resi stupidi, ovvero si lasciano rendere tali […] e qualsiasi ostentazione esteriore di potenza, politica o religiosa che sia, provoca l’istupidimento di una gran parte degli uomini. Ci si accorge , parlando con uno di questi stupidi, che non si ha a che fare con lui, con lui personalmente, ma con lo slogan e motti da cui egli è dominato. Trasformatosi in uno strumento senza volontà, lo stupido sarà capace di ogni malvagità, essendo contemporaneamente capace di riconoscerla come tale.” E che cosa possano generare degli stupidi fecondati da dei pazzi,esaltati o ammalati di potere, purtroppo lo sappiamo già. Oggi veniamo affogati in una mare di sottocoltura affinché ci disabituiamo a pensare e diventiamo dei facili compratori in balia dei nostri più stupidi capricci (peraltro indotti attraverso la stimolazione dei nostri peggiori istinti) e dei votanti senza pretese, senza domande ma pronti a tutto. E l’argomento è: io, io, io. io,io… E come opporsi quindi ad un mondo aggressivo, vuoto e violento se non adoperandosi per la qualità, per la poesia, per la vita? Attingere al pozzo del passato e invitare al raccoglimento. E allora ho pensato che se avessi potuto mettere in scena una di quelle storie e fossi riuscita a divertire e stimolare la coscienza di chi mi ascolta, almeno in minima parte di quanto mi sia divertita e istruita io leggendole, sarebbe stata una cosa straordinaria. Raccontare una piccola storia, la storia di un microcosmo dunque universale, storia di tutti per tutti, per parlare di noi, della nostra eterna lotta tra la ricerca e la perdizione, altalena infinita tra virtù e passioni,di quanto ci prendiamo in giro talvolta, cercando magari di sorriderne un po’. Un microcosmo dove si viveva l’uno vicino all’altro, quello di Frampol e di ogni altro shtetl, che faceva parte di un mondo che non c’è più ma che ha ancora tutto da insegnarci. Compresa la capacità di essere ingenui, di credere ancora negli uomini e in ciò che dicono, stupirsi della bellezza della vita, indignarsi della meschinità e dell’inutilità del male, essere puri, conservare la curiosità e il sorriso, malgrado tutto: vivere insomma a bocca aperta. E a bocca aperta sono seduta davanti al tavolo di prova colmo di regali. Ho tutto quello e coloro i quali avrei voluto avere con me ma che non osavo pretendere: dei musici un po’ buffoni, che sapessero recitare e che avessero frequentato almeno un po’ di quella musica. Ho i migliori : Maurizio Dehò al violino, Alfredo Lacosegliaz alle percussioni e Gian Pietro Marazza alla fisarmonica. Dei bravi attori spiritosi che parlassero anche lo yiddish: Olek Mincer e Elena Sardi. Le scene e i costumi di Luciano Damiani (sono un vero capolavoro di fantasia ed essenzialità), Mischa von Hoecke, il suo estro e la sua storia, per le nostre piccole coreografe. Essere in questa avventura nella mia casa di teatro, con i tecnici che mi hanno vista zampettare i primi passi sul palcoscenico, protetta dal lavoro di persone che mi vogliono bene e che lavorano con passione e …e…e Moni Ovadia: la sua totalità, la sua bravura, la sua conoscenza della yiddishkeit, l’amore per il suo mondo e la sua dedizione che si fonderà, speriamo, ai miei sogni e alle sensazioni e alle idee di noi tutti. Ecco perché si legge in locandina “uno spettacolo di Moni Ovadia e Pamela Villoresi.” Non è un fatto formale. Che in questo nostro periodo di lavoro comune, in questo nostro cammino, ci accompagnino la gioia, il piacere, l’entusiasmo. Chiudersi il mondo alle spalle ed entrare alle prove ci faccia dire “ Ah! Un po’ di pace!” Dunque: Shalom!
Pamela Villoresi
|
|
|
|
|
|
|
|